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Un museo interessante, non molto lontano da noi

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Ultimo appuntamento della rassegna «InCont(r)i al Museo Carlo Conti» di Borgosesia, sabato 13 aprile.
Argomento della conferenza, il MAVO, ovvero il Museo Archeologico del Vercellese Occidentale, sorto a Livorno Ferraris e inaugurato nel settembre del 2018. A raccontare di questa nuova realtà museale la curatrice e archeologa Angela Deodato.
«Il MAVO è un museo diverso da quelli che siamo abituati a visitare» ha spiegato nella sua introduzione. «Non nasce da qualcosa di precedente, non ha nulla delle collezioni civiche di Livorno Ferraris. Tutto ciò che è esposto è frutto dei nostri scavi».
La sede museale sorge all’interno di una ex scuola elementare, accanto alla chiesa sconsacrata di Santa Maria, datata attorno al 1600.
«Il museo è stato fortemente voluto dalla popolazione livornese e supportato dall’Amministrazione comunale, perché la gente sentiva il bisogno di legarsi al paesaggio, insieme al Museo Ferraris e al Museo delle Mondine, in quello che è un vero e proprio anello espositivo culturale» ha proseguito Deodato. «L’idea era nata agli inizi degli anni 2000, quando erano partiti i lavori per la costruzione della linea Trenitalia di alta velocità, quando dagli scavi archeologici che stavamo compiendo nella stessa zona erano iniziati ad affiorare quelli che si sono poi presentati come i resti di una necropoli di età romana. Tramite un accordo con la società ferroviaria, avevamo potuto dare il via al cantiere archeologico, posto a circa 2 chilometri dal centro abitato di Livorno Ferraris».
Come spiegato, la necropoli indica la presenza di un vicus, ovvero un villaggio, e fornisce agli studiosi molti dati su chi fossero gli abitanti del vicus stesso.
In particolare, il sepolcreto di Livorno Ferraris si compone di cinque aree e ha lasciato capire agli archeologi che la zona era abitata fin dal primo secolo d.C., e quindi in Età Augustea.
«Nelle cinque aree che abbiamo indagato, sono state rinvenute 215 deposizioni, di cui 190 contenenti reperti, per un totale di 516 reperti trovati. Un patrimonio immenso» ha detto Deodato, spiegando anche che il rituale funebre più in uso nella società romana di quei secoli era la cremazione, cioè i corpi dei defunti venivano bruciati. I parenti e gli amici del morto portavano cibo e offerte, e sappiamo, dagli scritti di Plinio, che durante i riti si consumavano dei pasti, e gli avanzi venivano gettati nel fuoco della pira. Nelle tombe venivano sistemati oggetti insieme ai corpi, il tutto veniva dato alle fiamme in modo che diventasse sacro e il defunto potesse utilizzare gli oggetti stessi nella vita nell’aldilà.
«Una volta che la pira, il corpo e il corredo funerario erano ridotto in cenere, i parenti ne raccoglievano il più possibile in contenitori che venivano poi sepolti nelle tombe di famiglia» ha illustrato Deodato. «Abbiamo rinvenuto due tipi di sepoltura: una, detta ustrinum, derivata dalla pira funebre, e una detta sepulcrum. Purtroppo, le ustrinum erano le più superficiali, e le lavorazioni agricole del terreno per secoli hanno danneggiato i resti, in molti ritrovamenti si notavano bene i segni di aratro, ma rimangono comunque reperti molto interessanti».
Gli studi compiuti sui resti del legno delle pire hanno inoltre permesso di ricostruire il tipo di vegetazione della zona e gli alberi che venivano utilizzati per il legname, ma anche quali coltivazioni sorgevano attorno al vicus.
Molte delle tombe ritrovate si presentavano con casse realizzate con tegole, a volte contenenti anfore, diffusissime in Europa e nel Nord Italia, ma ritrovate solo in tre esemplari nella necropoli livornese.
«A partire dal III secolo d.C. si è dato il via alle inumazioni all’interno delle casse di tegole, il corpo veniva sepolto insieme agli oggetti più cari al defunto e che gli sarebbero serviti per la sua vita nel regno dei morti» ha detto ancora Deodato, soffermandosi a illustrare, tramite fotografie, il corredo della tomba numero 30, appartenente a una donna di ricca famiglia. «Al suo interno abbiamo trovato oggetti per la mensa, vasi, piatti, ma anche collane, una spilla, e molti balsamari, ovvero boccette in cui venivano contenuti profumi e unguenti. Un vezzo decisamente femminile».
Altra tomba molto interessante è la numero 150, appartenente a quella che si è ipotizzato fosse la famiglia più prestigiosa del villaggio, dove in una sepoltura femminile sono stati ritrovati un corredo molto ricco e molto costoso per l’epoca, con diversi gioielli e una lucerna, simbolo di luce eterna.
Importanti per il sito archeologico sono anche le monete: «Come spesso si vede nei film in televisione, le monete erano le offerte per Caronte, traghettatore del regno dei defunti, e venivano messe in bocca o in mano al corpo. Ebbene, nella tomba 151 ne abbiamo trovata una perfettamente conservata, probabilmente è stata aggiunta dopo la bruciatura della pira , il che per noi è stata una manna dal cielo, perché ci ha facilitato molto la datazione della tomba stessa».
La necropoli di Livorno Ferraris arriva fino al IV secolo, nell’ultima fase di sviluppo del vicus, come testimoniato dalle 15 tombe più recenti. Poi, più nessuna traccia. E’ ipotizzabile che il villaggio abbia iniziato a decadere.
I reperti sono stati classificati e collocati presso il MAVO, e sono visibili nelle sale del museo.
Attualmente, gli archeologi della struttura sono alle prese con una nuova campagna di scavi a Crescentino, dove è stata rinvenuta una necropoli vicinissima al centro cittadino, con 54 deposizioni, ma decisamente dai corredi molto più ricchi di quelli di Livorno Ferraris.
«Non sappiamo se sia così perché la popolazione crescentinese era economicamente più benestante, o se perché sfruttasse rotte commerciali migliori, gli studi sono ancora in corso, ma nel nostro museo hanno già trovato spazi alcuni dei ritrovamenti» ha concluso Deodato, citando da ultimo il ritrovamento dei resti di un ponte romano sul fiume Sesia, a Motta de’ Conti, e le numerose pietre miliari poste lungo quelle antiche vie romane, a tutt’oggi conservate presso il Museo Leone di Vercelli.

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