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«Ho visto uomini e donne entrare in Pronto Soccorso con le loro gambe e morire pochi giorni dopo»

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Sono moltissime le storie, le iniziative e i gesti solidali che abbiamo raccontato e che continuiamo a raccontare ogni settimana e di cui si sono resi protagonisti diversi professionisti, volontari e medici impegnati in prima linea nella lotta al coronavirus.
Nonostante la nostra sia un’informazione perlopiù legata alla prossimità, questa volta vogliamo spingerci un po’ «oltre»: abbiamo avuto l’opportunità di intervistare un medico operativo in uno dei presidi ospedalieri di Bergamo, la cui provincia rimane la più colpita in Italia dal covid.
Il dott. Giuseppe Grosso, 53 anni, originario di Messina, ginecologo e dirigente medico dell’Ospedale Papa Giovanni XXXIII di Bergamo, dallo scorso 10 marzo opera come medico volontario nel «Coronateam», un’unità costituita ad hoc per rafforzare l’assistenza e le cure rivolte ai contagiati. Al dott. Grosso è capitato diverse volte di leggere le pagine del Corriere Valsesiano perché, da qualche anno, trascorre con la moglie vacanze e fine settimana invernali ed estivi nella nostra valle: a Brugarolo di Cravagliana ha infatti una casa. Quindi, andiamo «oltre» rimanendo pur sempre, sotto un certo aspetto, in Valsesia.
Dimostrando una grande disponibilità il dott. Grosso ha accettato di rispondere alle nostre domande, e proprio durante il suo giorno di riposo, a Pasqua, che, come ci ha raccontato, ha trascorso isolato dalla sua famiglia: «È così che vivo da circa un mese, cioè da quando faccio parte del gruppo di medici volontari nella lotta al coronavirus: sono molto esposto al contagio, e devo limitare il più possibile i contatti al di fuori dell’ospedale».

Dott. Grosso, inizialmente in Italia c’è stato un grande scetticismo sull’effettiva gravità del virus, lei come ha interpretato il caso cinese?

«Ho realizzato molto presto che l’emergenza sanitaria scoppiata nella regione cinese e che avevamo visto raccontata in televisione avrebbe avuto risvolti drammatici. Personalmente, ho seguito molto le notizie e gli aggiornamenti sul virus fin da subito, sia per la mia professione, ma anche perché, pensa a quanto a volte sia importante il caso, la scorsa estate ero stato in vacanza proprio in Cina, un paese cui mi sono sentito fin da subito molto legato. Avendo visto con i miei occhi l’operosità e soprattutto la meticolosità di un popolo come quello cinese, ho capito che l’emergenza, da come stava venendo gestita nel loro paese, non si sarebbe dovuta ignorare neanche qui, dall’altra parte del mondo, anche se sembrava essere ancora molto lontana».

In quale momento ha realizzato che il virus era arrivato anche in Italia e che la situazione sarebbe degenerata?

«Mi ricordo molto bene quando, dopo aver appreso la notizia del primo focolaio italiano, ho pensato che tutto ciò che avevamo visto succedere in Cina l’avremmo rivissuto anche qui. C’è un aneddoto che lo testimonia e che coinvolge proprio la Valsesia. Sabato 22 febbraio mi trovavo proprio in Valsesia, per il fine settimana; quella sera ero a cena con alcuni colleghi provenienti da Milano e Bergamo e con amici del posto. Eravamo a tavola insieme, e io avevo definito quella cena come la “nostra ultima per i prossimi mesi”, immaginando già che, da lì a qualche giorno, sarebbe stata prescritta chiusura totale e che il nostro successivo incontro sarebbe stato rimandato probabilmente a giugno. Non tutti i commensali mi hanno preso sul serio, alcuni hanno addirittura scommesso che la mia previsione non si sarebbe realizzata. Invece, purtroppo, si è rivelata verosimile, non completamente corretta, perché in quell’occasione avevo dichiarato che i morti causati dal virus in Italia sarebbero stati poco più di duemila, invece purtroppo la mia stima si è rivelata di dieci volte inferiore».

Come sappiamo dai notiziari e dalle moltissime e tristi pagine scritte dai quotidiani nazionali, la zona di Bergamo è stata lo scenario della situazione più tragica dell’emergenza covid: migliaia di contagiati, strutture sanitarie fortemente indebolite, fatica a star dietro all’esigenza di assistenza e di cure.  Come si è riorganizzato il suo ospedale, il Papa Giovanni XXXIII?

«Possiamo dire che ha avuto una riorganizzazione progressiva: inizialmente l’unità di crisi aveva delegato a occuparsi dei malati di covid unicamente i medici e i professionisti con specializzazioni attinenti, e quindi pneumologi, infettivologi, anestesisti, rianimatori. Ma la criticità aumentava di ora in ora: se inizialmente erano circa una ventina le persone che si presentavano al pronto soccorso con i sintomi del corona virus, dopo qualche giorno erano diventate 160 e il personale delegato non poteva svolgere tutto il lavoro e fornire l’adeguata assistenza sanitaria. Quindi, c’è stata come una gemmazione spontanea di una squadra, poi definita “Coronateam”, costituita da altri medici e infermieri provenienti da altri reparti in supporto ai medici impegnati in terapia intensiva per implementare il loro lavoro. Era circa un mese fa, il 10 marzo, quando l’unità di crisi del Giovanni XXXIII ha aggiunto agli iniziali 180 medici coinvolti nell’emergenza covid altri 100 medici provenienti da altri reparti, disponendo di circa 600 posti letto per i ricoverati a causa del virus. Questo ha comportato, naturalmente, la chiusura di molti reparti a eccezione del mio, vale a dire quello di Ostetricia e Ginecologia, ma io e un mio collega, vista la totale copertura assistenziale del nostro reparto, che conta un personale molto numeroso, abbiamo deciso volontariamente di distaccarci e di unire le nostre forze e le nostre competenze a quelle degli altri professionisti per arginare l’emergenza. Possiamo dire che questa strategia ha funzionato e ora stiamo iniziando a vederne i benefici».

Forse le ore più drammatiche, come racconta il dott. Grosso, sono state quelle che comprese tra i giorni dal 15 al 20 marzo, durante i quali l’assistenza sanitaria non è riuscita a raggiungere tutti coloro che ne avevano bisogno e di cui porteremo tutti a lungo il ricordo: abbiamo ben presenti le immagini dell’esercito che trasporta fuori dalla città di Bergamo le bare.

«Anche se a livello generale possiamo considerare la riorganizzazione dell’ospedale come riuscita e funzionante, ci sono stati però alcuni giorni in cui l’intera struttura non ha retto il peso dell’emergenza. Si tratta proprio della settimana centrale di marzo, quando il pronto soccorso ha toccato e superato i 200 ingressi giornalieri di persone che presentavano i sintomi da covid: per alcuni di loro la situazione era già molto grave, non rimaneva più nulla da fare. C’è un’immagine, tra le moltissime diventate purtroppo famose in queste settimane, molto significativa e che racconta duramente ma anche realisticamente quale fosse la situazione che stavano vivendo gli ospedali, e in particolare il nostro: è la fotografia di una lunga fila di ambulanze in coda per entrare al pronto soccorso. Il loro rallentamento immortalato dalla macchina fotografica dei giornalisti non era dovuto alla mancanza di posti nell’ambulatorio di primo soccorso, bensì al numero insufficiente di respiratori a terra, tanto che i medici hanno preferito tenere i pazienti a bordo delle ambulanze perché dotate di bombole d’ossigeno. Naturalmente, questo “traffico” ha portato a un rallentamento più generale: se normalmente a un codice rosso si risponde e si interviene entro i 10 minuti, in quei giorni erano arrivati a 120 i minuti di attesa, con ben immaginabili conseguenze. In quel momento non si è riusciti a stare al passo con l’emergenza, con le tragiche conseguenze che ognuno è in grado di immaginare».

Che cosa ha visto in quei giorni così difficili?

«Ho visto tante persone che non ce l’hanno fatta. Ho visto uomini, donne, anziani e non solo entrare con le loro gambe dalla porta del pronto soccorso per fare un tampone, poi morti dopo qualche giorno, od ora, a causa del virus. Ho visto anche colleghi, tra medici e infermieri, che si sono ammalati e sono stati ricoverati; per fortuna io, insieme a moltissimi altri, non ho contratto il virus, ma tutti abbiamo vissuto e stiamo vivendo con la consapevolezza che basta veramente poco, anche solo abbassare la guardia un attimo, per essere contagiati».

Ora, dopo qualche settimana, la situazione al Papa Giovanni XXXIII è totalmente diversa: sono diminuiti gli accessi al pronto soccorso, tutti, senza valutazioni o calcoli, accedono alla terapia intensiva e all’assistenza necessaria. Insomma, la situazione sta migliorando tanto da far ben sperare che la proroga dello stato di chiusura totale fino al 3 maggio sia veramente l’ultima: «Quello che stiamo vedendo dal punto di vista clinico è il rientro graduale dell’emergenza che potrebbe far pensare che sia realistico il termine ultimo deliberato dal presidente del Consiglio. Dobbiamo sempre scongiurare la possibilità di una nuova impennata dei contagi, è una variabile da tenere in considerazione».

Certo è che neanche alla vigilia dell’estate potremo considerarci completamente fuori pericolo: «Purtroppo non sappiamo ancora quale sarà il decorso del virus nei mesi estivi, né tantomeno se aspettarci una seconda ondata a partire dall’autunno. Nei prossimi mesi, quando inizierà quella che è stata definita “fase 2” cercheremo di capire e agire di conseguenza facendoci trovare pronti. Inoltre, l’ultima indagine che ha definito scadenze e tempistiche presentata la scorsa settimana è valida solo per l’Italia; per quanto riguarda il resto del mondo dovremo attendere ancora. A maggio si intende iniziare a riaprire attività e settori produttivi, ma per quanto riguarda la libertà di socializzazione, quindi le uscite, i ritrovi, dovremo pazientare ancora un po’. Mi unisco al pensiero dei molti che hanno definito questa situazione come un’opportunità per riflettere sulla propria vita e sulla propria libertà, spesso abusata o data come scontata».

E tu cosa ne pensi?

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