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Borgosesia: Vite da profughi. Racconti di viaggio nei campi profughi

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Norberto Julini, presidente di Jerusalem Varallo, a nome degli Enti organizzatori, ha presentato la serata dedicata a un tema di grande attualità, ma spesso non conosciuto in modo corretto: quale sia la vita che conducono i profughi per fuggire da realtà di guerra o di povertà, alla ricerca di una vita dignitosa. L’Associazione Mamre di Borgomanero, il cui nome è ispirato all’ospitalità di Abramo alle Querce di Mamre nel libro della Genesi, lavora per infrangere i labirinti della diffidenza e della solitudine lì dove le religioni, percorrendo la via dell’autenticità, educano all’accoglienza: «Abramo è stato il primo eroe dell’ospitalità, del diritto d’asilo. L’ospitalità è ben più che l’adempimento di una legge: sotto la tenda dell’uomo credente diventa un’occasione singolare per fare esperienza di Dio, accogliendo lui stesso nei “fratelli più piccoli”».
Mario Metti, presidente di Mamre, ha spiegato che è un’associazione che negli anni ha accolto più di trecento persone, tra donne e bambini (e sono nati ben cinquantadue bambini), che non prevede riunioni periodiche, ma è una rete spontanea composta da persone che si conoscono e hanno come fine comune il bene degli altri: «Trentacinque anni fa a Borgomanero, ci si ritrovava per imparare a vivere il Verbo, conoscere ciò che è accanto a noi, ma anche ciò che è lontano da noi. Il cinquanta per cento di ciò che veniva raccolto veniva investito sul territorio e il cinquanta nelle missioni, nell’ottica di portare avanti un discorso in cui l’accoglienza fosse espressione di tutta la Comunità. Dalla guerra in Bosnia, con le ragazze madri, nacque l’input che diede origine a Mamre, cui aderirono la parrocchia e altri gruppi e istituzioni, uniti dalla finalità di dare una risposta a questo tipo di bisogni: nacque così la Casa Piccolo Bartolomeo. Oggi le donne che bussano sono quelle che hanno subito violenza, da tre anni e mezzo vengono accolti anche uomini, che abbiano più di cinquantacinque anni, persone in difficoltà che spesso hanno perso il lavoro, subito uno sfratto e non hanno una famiglia alle spalle, quindi hanno bisogno di essere reinserite nel tessuto sociale. Donne e uomini devono essere aiutati a ricostruire la dignità» sottolineando che è molto importante pregare insieme, perché «Dio è unico e le religioni sono strade che devono portarci a questo».
«La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del Comandante non è la rotta, ma ciò che mangeremo»: questa frase del filosofo danese Soren Kierkegaard, esprime bene l’incertezza del nostro tempo e la ricerca di piaceri immediati: «Nella nostra Casa le persone sono vissute come dono, non come problema».
Mauro Clerici, che si definisce «ateo impenitente, coinvolto da questa banda di cattolici» ha raccontato l’esperienza fatta nel mese di settembre in Bosnia a Bihac, distante settecentocinquanta chilometri. Qui c’è il punto di raccolta dei profughi che arrivano dall’Oriente: siriani, afghani, pakistani, yemeniti, persone che hanno una certa cultura e spesso parlano inglese. La Bosnia rappresenta il punto di passaggio per arrivare in Europa: queste persone sono tutte dirette verso i paesi del Nord Europa, ma tra loro e i loro sogni ci sono da attraversare Croazia, Slovenia e Italia. Tentare di passare il confine con la Croazia è molto difficile, viene chiamato «The Game», il gioco e spesso i profughi vengono intercettati, picchiati, viene loro frantumato il cellulare, così non hanno più il GPS e poi sono riportati in Bosnia. Sono state mostrate immagini anche del campo di Velikakladusa a cinquanta chilometri da Bihac, vicino al confine con la Croazia e anche lì le stesse storie si ripetono.
Giorgio Fornara è un imprenditore borgomanerese che ha assunto molti di questi profughi e ha sottolineato che il problema più grosso è l’informazione: «In Bosnia assicurano che non abbandoneranno i profughi, perché è ancora vivo in loro il ricordo della guerra, adesso il paese cerca di rialzarsi, ma certo i profughi creano problemi. La “rotta balcanica” è costellata di morti».
Sergio Vercelli e Gabriele Sala hanno raccontato l’esperienza con i profughi in Libano, il territorio che appartenne ai Fenici, che era stato il paese più aperto di quell’area mediorientale, il quale, appartenendo all’Impero Ottomano, con il trattato di Versailles passò sotto il dominio della Francia, che lo mantenne sino al 1943. Tra il 1976 e il 1990 il Libano subì una durissima guerra civile. Il 16 settembre 1982 avvenne il tristemente famoso massacro di Sabra e Chatila. Oggi il Libano ha 4.400.000 abitanti e millecinquecento campi profughi, che ospitano mezzo milione di persone: nei campi sono state organizzate scuole, ma la situazione è davvero terribile, la corrente nei campi arriva tre ore di giorno e tre ore di notte. A Chatila, quartiere a sud di Beirut, in un chilometro quadrato vivono trentacinquemila persone. Dopo queste testimonianze si è conclusa la serata che è stata definita «di conoscenza», perché solo se si conosce si capisce e si può decidere che cosa fare. Adesso Mamre sta portando avanti un progetto per costruire una scuola alla periferia di Beirut, frequentata da 475 bambini, che così vengono tolti dalla strada.

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